
Il mondo dell’informazione digitale sta progredendo velocemente in questi ultimi anni, mostrando da un lato grandi potenzialità ma allo stesso tempo anche alcuni limiti. Tra questi ci sono sicuramente le fake news, le quali rischiano di proliferare e inquinare il mondo dell’informazione. Questo e altri temi saranno trattati nei prossimi incontri di dialogo organizzati dalla SSR.CORSI in collaborazione con ATTE e Pro Senectute per mostrare come il servizio pubblico si impegna nella lotta alle fake news. Per avvicinarci a questa tematica complessa strettamente legata al tema della digitalizzazione abbiamo intervistato Ludovico Camposampiero, co-responsabile dell’informazione digitale della RSI.
Caro Ludovico, da quanto tempo ti occupi di informazione digitale?
Ormai da una quindicina d’anni. Nel corso degli anni ho vissuto anche qualche esperienza con la radio e la televisione, ma come giornalista mi sono formato e sono stato attivo soprattutto in ambito digitale. Prima come redattore, poi come viceresponsabile della redazione “newsdesk” dell’Informazione RSI e infine, da un anno a questa parte, come co-responsabile del settore Informazione digitale insieme al collega Diego Moles.
Il digitale negli ultimi anni ha assunto una dimensione importante all’interno dell’offerta del servizio pubblico e, quasi di conseguenza, il numero di utenti che si informano unicamente attraverso piattaforme digitali è quasi raddoppiato. Come avete gestito questa svolta repentina nella fruizione dell’informazione da parte del pubblico?
Da una parte abbiamo aumentato il numero di contributi originali che proponiamo sulle nostre piattaforme, cercando un migliore equilibrio tra le notizie di cronaca, che restano comunque importanti e apprezzate dal pubblico, e altri contenuti a maggior valore aggiunto come analisi, approfondimenti, interviste, inchieste o reportage. Lavoriamo inoltre il più possibile in sinergia con le redazioni della radio e della televisione, per cercare di intercettare temi e spunti che possano poi essere declinati anche sulle nostre piattaforme digitali e per valorizzare meglio quanto già andato in onda, così da perennizzare il contenuto e raggiungere un pubblico più vasto. Infatti, questo aumento della fruizione digitale ci permettere da un lato di proporre contenuti adattati o pensati esclusivamente per l’online, ma d’altro anche di dare una seconda vita a contenuti audiovisivi o radiofonici che prima sarebbero pressoché spariti dai radar una volta andati in onda. Inoltre, per gestire questa svolta, ci siamo strutturati maggiormente anche per quanto riguarda il lavoro “a monte”, fatto di coordinamento, stesura dell’agenda e riunioni di pianificazione. L’attenzione alle modalità con cui si distribuiscono i contenuti è pure aumentata e così, in sintesi, operiamo sempre di più sulla base di un concetto di transmedialità e di pubblicazione su più piattaforme: quelle nostre – come il sito, l’app RSI e il play – ma anche sulle piattaforme terze, per cercare di raggiungere un pubblico più ampio e magari meno incline a fruire prodotti giornalistici in maniera tradizionale, in radio o in televisione.
Numerose piattaforme online tra cui TikTok, X – un tempo Twitter – e quelle legate al gruppo Meta (come Facebook e Instagram) hanno deciso di abbandonare lo strumento del fact-checking. Come valuti questa scelta? Come avete reagito a questa decisione, dato che su queste piattaforme ci sono account aziendali?
Ritengo questa scelta sbagliata, anche se personalmente non ho mai pensato che il fact-checking compiuto da specialisti all’interno delle piattaforme fosse la panacea di tutti i mali dei social media: era uno strumento interessante, necessario, ma lacunoso (non si riusciva ad intervenire ovunque) e che comunque, per volere più o meno esplicito dei vertici di questi grandi gruppi, non ha impedito di silenziare determinate minoranze o di cancellare contenuti che non avrebbero dovuto essere cancellati. Ora, tuttavia, in nome di una presunta libertà di espressione, si lascia campo libero a qualsiasi tipo di discorso, anche se non supportato dai fatti. Il sistema delle note che gli utenti possono aggiungere sotto a un post per meglio contestualizzarlo è di per sé positivo, perché dà vita ad uno sforzo partecipativo nella contestualizzazione e spiegazioni dei fatti; tuttavia, non basta a contenere l’ondata di disinformazione che sta travolgendo alcune piattaforme. Infatti, la quantità di contenuti che vengono quotidianamente pubblicati non permette a chi vorrebbe intervenire, con le migliori intenzioni, di essere capillare. Per ogni post corroborato dalle cosiddette “community notes” ce ne sono tantissimi altri che sfuggono a questi tentativi di combattere la mistificazione.
Come avete reagito a questa decisione, dato che su queste piattaforme ci sono account aziendali?
Sui nostri profili social, così come facciamo sulle nostre piattaforme RSI, veicoliamo informazioni verificate e delle quali siamo certi della fonte e per questo motivo le modifiche alle varie politiche di fact-checking interno alle piattaforme non ci hanno colpito più di tanto. Tuttavia, tengo a precisare che la presenza dell’informazione RSI sui social non è fine a sé stessa: serve a veicolare contenuti giornalistici in modo da raggiungere un pubblico più vasto e fatto anche di persone più difficilmente raggiungibili in modo tradizionale. Siamo però consapevoli di operare su piattaforme terze su cui abbiamo poco controllo e cerchiamo di metterci costantemente in discussione: oggi siamo sui social ma non posso dire con certezza che, fra qualche tempo, lo saremo ancora o sul quale social saremo attivi.
Come avviene l’operazione del fact-checking a livello aziendale? Esistono delle figure professionali in azienda che compiono un’attività di debunking, ovvero di smascheramento di notizie false?
Il fact-checking è una tipologia di contenuto giornalistico molto interessante e che permette di fare luce, in maniera molto chiara, su fatti o dichiarazioni. Tuttavia, per proporlo in maniera sistematica serve uno sforzo notevole: oltre a quello per la stesura di un articolo, serve infatti il tempo anche per raccogliere le informazioni, incrociarle e verificarle. Per questo motivo, attualmente all’Informazione RSI non abbiamo personale dedicato solo a questo genere di attività giornalistica. Sono gli stessi giornalisti, della redazione digitale ma non solo, che si cimentano col fact-checking quando possibile. Come detto, per contingenze interne, attualmente non riusciamo a proporre fact-checking sistematici ma è una modalità narrativa molto importante in campo giornalistico che cerchiamo di applicare quando possibile e necessario.
La disinformazione nel mondo social e virtuale della contemporaneità permea non solo l’ambito testuale ma anche quello delle immagini, attraverso la tecnica del deepfake. Quali sono gli strumenti per verificare le immagini circolanti sulla rete?
Il deep fake è qualcosa che, personalmente, ritengo molto pericoloso per la correttezza del dibattito pubblico e la libera formazione delle opinioni. Le tecnologie che permettono l’alterazione dei contenuti mantenendoli verosimili o addirittura la creazione ex novo di contenuti apparentemente reali ma che in realtà non lo sono, hanno fatto passi da giganti ed è probabile che continueranno a compierli. Le prime immagini generate dall’AI, per esempio, erano cariche di dettagli che rivelavano quanto fossero posticce, ora invece la qualità è aumentata in maniera impressionante. Anche i video generati con l’AI sono sempre più curati e questa tecnologia potrebbe essere usata (e in parte lo è già stata) per alterare messaggi o dichiarazioni ufficiali.
Tornando alla domanda, che io sappia, non ci sono attualmente strumenti infallibili per smascherare i deepfake. Ci sono strumenti che possono indicare la probabilità che un contenuto sia un falso, ma il loro margine di errore è ancora ampio. Ultimamente si sta valutando l’obbligo di dichiarare sempre quando un contenuto è stato creato con l’intelligenza artificiale generativa ma si tratterebbe di un vincolo facilmente aggirabile
Tuttavia, vorrei sottolineare che la tecnologia alla base del deepfake non va demonizzata, anzi: è carica di applicazioni interessanti. In ambito audiovisivo potrebbe per esempio permettere di ricostruire scene, in formato video, sulla base di una descrizione, con un consistenze risparmio di tempo. Oppure, se penso al lavoro delle redazioni, permetterebbe per esempio di alterare agilmente le voci degli interlocutori che, per la delicatezza delle loro testimonianze, vogliono restare anonimi.
Le fake news spesso vengono create con uno scopo ben preciso, ovvero di far prevalere una versione dei fatti su un’altra in una maniera chiaramente non molto etica. Come reagisce un’azienda di servizio pubblico di fronte a una diffusione, che rischia di diventare virale, di informazioni errate o palesemente manipolate, magari a detrimento dello stesso servizio pubblico?
Verificando il più possibile la veridicità delle informazioni, le fonti e i retroscena. Cercando di spiegare il più possibile le notizie e il loro contesto e non facendosi prendere dalla fretta di dare una notizia della quale non si è sicuri. Alle volte conviene inizialmente frenare nella diffusione di una notizia per poi prendere lo slancio per meglio spigarla e dare al pubblico qualcosa in più. E si si sbaglia, bisogna essere trasparenti: dire che si è sbagliato e correggere l’errore.
Terminiamo con una domanda molto generale ma di ampia attualità: è possibile creare una maniera di fare informazione digitale al passo coi tempi, con un linguaggio contemporaneo e adatto a essere recepito anche dalle giovani generazioni, senza perdere però i fondamenti della deontologia del giornalismo tradizionale?
È possibile, ma a mio pare non bisogna, almeno per quanto riguarda l’Informazione, rincorrere il giovanilismo a tutti i costi. Indipendentemente dal contesto in cui si opera, prima di ogni cosa bisogna rispettare i principi di indipendenza, completezza e accuratezza giornalistica. Quindi qualsiasi riflessione su formati pensati per i giovani, nel campo dell’Informazione pura, deve basarsi dapprima sul rispetto della deontologia del giornalismo e su elevati standard di qualità contenutistica. Possiamo tentare nuove vie e sperimentare nuovi formati (noi, per esempio, lo facciamo anche con un’offerta informativa pensata specificamente per Instagram e quindi rivolta soprattutto a un pubblico di giovani e giovani adulti) ma dobbiamo sempre restare autorevoli e coerenti con quello che siamo, con quello che facciamo sulle nostre piattaforme e con il mandato del servizio pubblico.
Dopodiché, per intercettare i giovani oltre che puntare su nuovi formati, bisognerebbe anche esplorare meglio e più spesso gli argomenti ed i fenomeni che li coinvolgono.
A cura di Marco Ambrosino, Segretariato SSR. CORSI