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Di servizio pubblico e dintorni

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11 Dicembre 2025
Contributo di Giangi Cretti

Correva l’anno 1985. Oddio, confrontati con le turbodinamiche attuali, forse sarebbe meglio scrivere: camminava l’anno 1985. Tant’è, gli anni sono passati comunque.

A Zurigo, nella prestigiosa Aula Magna dell’università, il 4 e 5 ottobre si svolgeva un convegno intitolato. “L’emigrazione (a quei tempi si chiamava ancora così! Il termine Expat, al pari dell’inchino all’inglese, era di là da venire) nel mondo dell’informazione”.

Al centro dei lavori, accanto al modo in cui gli emigrati erano presentati e (non) considerati dai e sui media svizzeri, la volontà di avviare una riflessione sugli effetti che sarebbero conseguiti alla ricezione anche in Svizzera del segnale di un canale Rai (il primo).

Ripensare, ma soprattutto ripercorre (perché la memoria ad un certo punto della vita, manifesta i suoi inciampi), va da sé a ‘volo d’uccello’, gli atti di quel convegno, consente di incontrare considerazioni, preoccupazioni e spunti che, a distanza di 40 anni - un paio di ere tecnologiche fa –, non solo non restano confinate nei polverosi archivi di un passato remoto, ma vantano un diritto di cittadinanza nel dibattito che nel presente agita il variegato mondo della comunicazione.

Già negli anni ‘60, un rapporto della Commissione federale per i problemi dei lavoratori stranieri segnalava che “(…) l’inforestieramento culturale più intenso ci proviene dalla comunità linguistiche dei paesi confinanti. Inoltre, si può notare il sotterramento delle particolarità elvetiche da parte della civilizzazione di massa internazionale, promossa dalla tecnica”.

Lo stesso rapporto evidenziava il timore della mutata dimensione dell’influsso estero sulla cultura svizzera, segnalando che “prima i libri, le riviste, il teatro e l’arte stranieri toccavano una ristretta fascia colta della popolazione, dotata di strumenti di giudizio nei confronti del prodotto culturale. Oggi, invece, i quotidiani e i rotocalchi, la radio e la televisione, il cinema, i dischi, raggiungono la popolazione, che non possiede grandi strumenti di giudizio ed è quindi fortemente esposta all’influenza dei media”.

Preoccupazioni di natura identitaria che facevano il paio con timori di influenze esterne e l’impreparazione a (intel)leggere la realtà.

Preoccupazione, timori e implicazioni che, lungi dall’essere state superate nel tempo, in forme, confezioni e linguaggi tecnologicamente aggiornati, mantengono la loro contrastante (contrastata?) attualità.

Allora - in termini generali e in un contesto, va da sé, strutturalmente e culturalmente diversi - al centro dell’attenzione e della tensione, fra coloro che per mutuata, comoda e selvaggia definizione potremmo chiamare gli apocalittici e di converso gli integrati, il rischio di una sempre più evidente divaricazione fra la possibilità di ricevere informazione, intesa a tutto tondo come racconto sociale (della società?) e opportunità di partecipare con consapevolezza alla vita sociale (della società?).

Per gli uni un’illusione corroborata dalle enormi potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, per gli altri, il timore dei pericoli e delle conseguenze negative che, dalla stessa ragione, avrebbero potuto derivare.

Oltre all’insidia avvilente di una perdita di controllo su e dell’informazione, conseguenza di una ridotta possibilità del confronto, del riscontro, dell’affidabilità e della credibilità, emergeva la preoccupazione di una depotenziata capacità di rappresentare e di riconoscere, riconoscendosi, il pluralismo, la dignità e la legittimità di un quadro culturalmente e linguisticamente plurale. Sentita a maggior ragione da chi è destinatario di messaggi veicolati in una lingua minoritaria, eppur nazionale, eppur ufficiale. All’epoca, molto più di oggi, una percezione aumentata dal fatto che chi non esercita, perché escluso per norma, diritti politici non ha possibilità di far valere il proprio consenso o dissenso, impossibilitato a potersi pronunciare ed esprimere su temi politici, sociali, economici, ambientali, del lavoro che afferiscono alla società di cui è comunque parte.

È fatto acclarato. Destinatario del racconto sociale, diffuso da strumenti genericamente registrati nella categoria dei media, è il pubblico nel suo insieme, potenzialmente totale. Da qui il ruolo fondamentale dell’operato che i media esplicano nella quotidianità, rendendolo inscindibile dalla effettiva realizzazione di uno stato democratico.

Ma non sempre ciò che conveniamo ‘dovrebbe essere’ corrisponde con ‘l’essere’. Come in ogni attività con effetti pubblici, coinvolgendo notevolissimi interessi, l’informazione – che, sempre in senso lato, e come patrimonio a forte implicazione sociale, va intesa come lettura e racconto della realtà - è condizionata da fattori esterni suscettibili di riflettersi con esiti riduttivi sulla sua completezza ed obiettività. Di volta in volta, si tratterà di condizionamenti in ordine di testate, economici, politici, culturali.

Il superamento di questi veri e propri limiti professionali riposa, su un duplice ordine di finalità operative. In primo luogo, occorre non perdere mai di vista quello che, al di là dell’aspetto meramente tecnico, pare essere lo scopo primario dell’informazione: cioè, l’elevazione del livello di conoscenza del pubblico (dei pubblici si direbbe oggi), favorendo una presa di coscienza di realtà attuali al di là dell’ottica circoscritta e soggettiva, indirizzandosi verso considerazioni ampie, plasmando così la consapevolezza collettiva di appartenere ad un articolato contesto politico-sociale, ad una comunità che è tale in vista di interessi comuni, i quali possono essere realizzati più e meglio tramite lo sforzo concordato, portando il pubblico verso tipi di conoscenza e quindi di giudizio, il più possibile onnicomprensivi.

La liberazione dai condizionamenti professionali poggia, in secondo luogo, su una responsabilizzazione sempre maggiore dell’informazione di fronte ad eventi il cui commento, o la cui pura e semplice relazione, presuppone imprescindibile una salda deontologia operativa e una spiccata professionalità. Al riguardo, sempre attuale l’esitazione fra il colpo giornalistico e l’esitazione non tanto di non dare la notizia, quanto di privilegiar i soli aspetti suscettibili di sollevare clamore e sensazione.

Allo stesso modo la cultura del pubblico può essere elevata solamente proponendo cultura, offrendo chiavi di lettura critica e tecnica dei fatti. Operazione possibile solamente grazie a degli specialisti.

Incombente e imprescindibile, tra gli imperativi dell’informazione, contribuire a formare la coscienza civile e politica del cittadino. Che, al di là di ogni orientamento soggettivo, non significa suggerire od imporre un credo, bensì creare i presupposti per operare scelte nella piena consapevolezza di tutte le alternative possibili.

Tale programma implica la pienezza e l’obiettività delle informazioni fornite; presuppone il difficile compito di valutare senza prevaricare; comporta, in sintesi, il rispetto di quelle condizioni e di quei presupposti che rendono effettivamente – e vorrei dire disinteressatamente - libera la formazione dell’opinione pubblica in un’ottica di franca democrazia.

Se quelli sintetizzati sin qui sono presupposti, considerazioni, preoccupazioni, timori, obiettivi e aspirazioni che caratterizzavano le riflessioni di 40 anni fa, non vi è dubbio, che, pur rivestiti di nuovo e conformi ai canoni di modernità, li possiamo ritrovare in ordine sparso ogni qualvolta si affronti un tema legato alla comunicazione, per quanto talvolta ridotta, o intenzionalmente costretta al rango di promozione.

In un’epoca come la nostra caratterizzata dalla disponibilità sempre più sofisticata delle nuove tecnologie, determinante e anche in questo caso imprescindibile è l’azione del fattore umano.

A tal proposito, (oggi più di allora?) varrebbe la pena rilanciare un nuovo Umanesimo. Ponendo il cittadino come centro del sapere, contribuendo a renderlo artefice del proprio destino. Questo potrebbe tradursi, a parziale bilanciamento della prepotenza tecnologica, in un'enfasi sulle humanitates (storia, retorica, filosofia, grammatica e poesia) come strumenti per la formazione morale e civile dell'individuo, e in una visione ottimistica e laica della realtà.

Come sia possibile dare concretezza a questi obiettivi, evitando la trappola della semplificazione mistificatrice della realtà, mentre si tenta di costringere la comunicazione in modelli di organizzazione privata (privatistica?) se non addirittura soggettiva, resta l’interrogativo e al contempo la posta in palio a cui si tenta (vanamente?) di dare un’adeguata risposta.

Anche di questo, in occasione della votazione sull’iniziativa “200 franchi bastano”, si dovrebbe tener conto.

Giangi Cretti

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